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SERGIO BRIZZOLESI scultore
Gianni Guadagnini (1971)
« Uomo solitario », « Pensatore », i titoli delle opere di Sergio Brizzolesi sono immagine speculare di una caratteriologia artistica definita: ch'egli è uomo e artista, un solitario, un pensatore. C'è, nel giro chiuso e vincolante della sua materia, il carattere di Brizzolesi: schivo, ombroso, pieno di fremiti ulteriori che esternizza in boutades, secche frasi di un linguaggio scarno che lo identificano — fra gli amici e gli artisti — per quel ragazzo cresciuto solo in provincia — è nato a Gropparello, vicino Piacenza — e restato solitario in città pur nel divenire professionale. Le sue statue, superato il linguaggio accademico già possente ed individuale degli anni giovanili, sono andate via via svincolandosi dal « polito » per assumere nel grezzo una incisività psicologica sempre più vicina alla natura, quasi che la mano dell'artista passi con il segno sulla materia senza decomporla, per articolarla e darle senso, vita. Qui, nel cogliere l'immagine nel masso, quasi in riflessione dolente, è il vivere schivo che gli fa spesso dire — romanticamente in un mondo pubblicitario —: « La statua parla da sé ». Questa convinzione, questa fede nel proprio operato, hanno tenuto spesso l'artista al margine dei concorsi e delle collettive, lontano dal « battage » pubblicitario, padrone della sua fatica e della sua ispirazione, depositario, come il suo nascere in campagna, di un mondo prememorico più importante della vanità caduca o della gloria momentanea. C'è un mondo contadino, primitivo — alla Rocco Scotellaro, scoperto poeticamente dal Levi per la Calabria — un farsi di Brizzolesi da Gropparello alle sculture dello « Sproceres » (specie di foro italico in Venezuela, dove venne chiamato dai professori Marchini e Daini per incarico del governo venezuelano), ch'è la sua vita legata al plasmare, scolpire, levigare, sbozzare, scultura fatta vita come intendimento. Ed il contatto con la raffinatezza del mondo intellettuale cittadino ed internazionale, risolto in un anelito ad aggrapparsi sempre più a quelle verità immanenti ch'egli sentiva sprigionare da se stesso, figlio della terra, di cui Stefano Ventura si chiedeva in un lungo appassionato articolo, apparso su « Libertà » nel luglio del '60: « Percorrere la strada del futuro o è viandante solitario di un viottolo che lascia la strada maestra? ». L'interrogativo è ancor oggi, per il Brizzolesi maturo — ha 38 anni —, una chiave del suo credo artistico, che è un percorrere il futuro in un viottolo laterale e della via maestra. L'abbandono voluto del discorso artistico prezioso per ritrovare in squarci di storie semplici « Padre e figli », o di sentimenti connaturali «Solidarietà », o di discorsi sociali « Il lettore », « Il prigioniero », una natura fuori dagli schematismi cibernetici e parainformali che ridia credo alla visione oggettiva, alla parafrasi mentale del monosillabo dello « ut », cioè divenga: una parola di uomo a modificare il marmo. Le stratificazioni alle quali l'artista procede nel suo plasmare sono spesso articolazioni momentanee, quasi sempre risolte in virtù di uno spazio realizzabile all'esterno, cioè scultura sola-dimensionale che aggredisce nel mezzo la morale sociale o la sfera privata per ridurle a rivendicazione significante di un trovarsi entro delimitazioni oggettive. L'affermazione e-stetica s'intaglia nell'ambiente; quasi una riflessione che contribuisca a determinare un disprezzo dell'infantilismo e dell'indifferenza morale della nostra società. Ne risulta che la figura e lo spazio in cui essa viene a collocarsi sono per il nostro artista una u-nità che si sviluppa in concetti delimitabili e raffigurabili. Uno spazio entro lo spazio ch'è spazio: il movimento colto nel farsi come parola sulle labbra prima ancora del suono. Ed ecco l'interloquire dell'uomo col suo mistero del « Pensatore » farsi statua nel braccio che sorregge il capo, quasi a ricevere una illuminazione extracorporea, gli occhi invisibili chiusi al solo pensiero che si fa dentro e che nel bronzo è l'alternarsi di piani contrapposti in gioco visuale d'attesa, lo schema dell'uomo plasmato a segmenti in verticale e in tondo che si materializzano in una asciutta scabrosità ossea: quasi che il tempo si fermi a concretare l'attesa negli anni riducendo l'uomo nella sua essenza: ossa, pensiero, attesa. Qui lo stringersi in simbolo quasi goiesco del dolore nell'unità di un dorso semilevigato — il dolore come maturità —; lì lo sfilarsi in abbandono d'una figura inginocchiata che cade sui gomiti, quasi per una pausa di respiro, il corpo ancora irrigidito da una volontà di lotta, o lo sgomento di quelle spalle curve, enormi, scheletrizzate di fatica, su cui il capo non è più che un aggettivo al verbo del faticare espresso nell'uomo sull'aratro. E l'ossessivo ritorno in queste statue della solitudine dell'uomo in lotta col suo vuoto esterno, piegato da se stesso nel decom-porsi della materia biologica per un processo al di là del vuoto, da cogliersi nel nascere leopardiano in un mondo triste di avvilimento, che allontana via via dalla fantasia per ridursi ad arto riflesso, gesto d'una mano che si scagli al ciclo rattrappita dentro: MANICHINO, maschera. Piacerebbe al Picasso di Arlecchino o al primo De Chirico la lettura di questa poetica d'abbozzo, sebbene Sergio Brizzolesi non possa identificarsi in una ideologia artistica, perché poetica è qui testo letterario e non verso come nella maniera ultima di michelangiolesca memoria. |
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