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SERGIO BRIZZOLESI

scultore
 

 

Giorgio Seveso
(Catalogo della
Mostra antologica "Le Regine di Sergio Brizzolesi",

 Palazzo Farnese / Piacenza)

 

Le metafore di Brizzolesi


Qui a Piacenza, in piazzale di Barriera Genova, c’è un grande monumento dedicato a Sant’Antonino protettore della città, che da qualche anno, dall’alto dei suoi quattro metri d’altezza, osserva con occhio benevolo il trascorrere delle stagioni. Ed è proprio Sergio Brizzolesi, piacentino doc, che lo ha realizzato, riuscendo a conciliare tra loro nella medesima immagine plastica due caratteristiche apparentemente opposte, quella cioè di aver concepito una scultura assolutamente figurativa e dotata di tutti i crismi del fare monumentale, senza apparire per questo meno contemporaneo, anzi mantenendo una freschezza nitida ed agile e, soprattutto, sottilmente, umorosamente antiretorica.
Ma chi è davvero Sergio Brizzolesi per la scultura piacentina e italiana? E qual è l’impronta distintiva della sua personalità creativa?  Sono domande alle quali certo risponderà per tutti questo catalogo e soprattutto la esauriente scelta di opere che è stata compiuta per questa mostra antologica a Palazzo Farnese. Per ciò che mi riguarda vorrei tratteggiare qui qualche considerazione a margine, giocando sul fatto che lo conosco da quasi vent’anni, dal tempo in cui mi capitò d’incontrare un gruppo delle sue maliziose Regine nella vetrina di un gallerista milanese, e di scriverne; poi, qualche tempo più tardi, lo invitai a realizzare sulle colline dietro Reggio Emilia, nel comune di Quattro Castella, un suggestivo monumento/ritratto idealizzato di Matilde di Canossa. Si era attorno alla metà degli anni ottanta, e da allora non ho più smesso di incrociarne ogni tanto le vicende e il lavoro.
E dunque per questo posso senz’altro ben dire con cognizione di causa che, tra gli scultori d’immagine odierni, egli è stato ed è tra quelli che molto più di altri hanno tenuto e tengono ben ferma la determinazione a non lasciarsi distrarre, a non farsi sedurre dalle chimere delle mode e dell’attualità, o meglio dell’attualismo, inteso come adozione artificiale di stili e maniere fatte per somigliare a questa o quella indicazione formale che vada per la maggiore. Non gli interessano per nulla, in questo senso, le tendenze esclusivamente legate alla forma o ai materiali, così come non s’è mai fatto catturare dalle fredde iperboli del concettuale. No, la sua è invece – come ha intuito acutamente Raffaele De Grada anni or sono – “una scultura profondamente italiana, che ripete i fasti rinascimentali tanto preziosi quando, come nel suo caso, non costituiscono una inutile ripetizione ma sono invenzione sobria nel recupero della bellezza femminile e della validità delle sue forme.”
L’impulso che da sempre caratterizza il suo lavoro è difatti un impulso esclusivamente figurativo, lirico e onirico insieme, verso la figura e il corpo soprattutto femminili, che diventano, tra le sue mani, una morbida sintesi, una summa affascinante e misteriosa dell’esistere, metafora diffusa delle sue emozioni e delle sue ragioni. Ne è quasi ossessionato, avviluppato totalmente e perpetuamente sedotto.
Non è tuttavia sempre stato così. La centralità poetica della primissima stagione di Brizzolesi, infatti, era sì ancora la figura, però priva di alcuna possibile gentilezza; una figura dura e scabra, resa emblema asessuato e indistino, più simbolo che corpo, traccia plastica di sofferenza indicibile e di dramma.
In mostra sono presenti alcune di queste impressionanti sculture degli anni sessanta, che rimandano violentemente alle atmosfere emozionali di quegli anni, al clima della guerra fredda, alla minaccia di una disastrosa guerra totale termonucleare che incombeva nelle arie del tempo. Si veda quanto le patine e le epidermidi di questi Atomizzati, secondo il nome che l’artista stesso gli ha dato, sono ustionate come da un gran fuoco che le ha annerite e prosciugate in un gesto quasi espressionistico, collocandole vicine ad un senso della sintesi quasi giacomettiano, ruvido, filiforme, essenziale.
Ma questa iniziale visione di Brizzolesi, pur fervida di esiti convincenti e sensibili, si è via via stemperata e schiarita. Con il mutare dei tempi e delle situazioni psicologiche e sociologiche collettive, con il disciogliersi delle tensioni, con la maturazione della sua personalità verso un più privato e distaccato sentimento del mondo, le immagini della sua scultura a partire dai primi anni settanta si sono così tranquillizzate, riscoprendo il terreno di un più sereno e lirico rapporto con il modellare.
Ed è anche da un tale cambiamento, del resto, che pure qui ricaviamo la conferma della limpida e sovrana autonomia dalle mode culturali che, dicevo più sopra, ha sempre accompagnato il suo lavoro. In anni in cui, infatti, il barometro artistico figurativo era prevalentemente fisso sull’impegno, sulla valenza civile e pubblica delle immagini nel loro rapporto con le vicende in atto dell’uomo e della storia, ecco che Brizzolesi scopre e inaugura, del tutto controcorrente, le proprie suggestioni intime, personali, private. Ecco, ancora, che da quella scoperta il suo lavoro assume i caratteri fondamentali che lo accompagnano tuttora, dove le sembianze femminili costituiscono un punto di partenza che si potrebbe anche definire un sovrano pretesto lirico, qualcosa che vive come innesco di ogni risorsa e di ogni intensità di trasfigurazione verso un esito che ha tutto lo spessore di un gesto poetico, di una invenzione metaforica legata ai valori dell’esistenza e della sua naturalità.
Proprio tali caratteri rivelano la sostanza più autentica e palpitante del talento del nostro artista, che si gioca in definitiva sui termini di un singolarissimo rapporto tra l’immagine e le sue valenze sentimentali. Al punto che l’immagine stessa, pur restando fortemente iconica, diviene quasi astratta, forma contaminata dalla sua qualità, appunto, di metafora, che richiama con affabile gentilezza in un medesimo impasto lirico l’erotismo discreto e il calore affermativo della vita, la dolcezza di un rapporto naturale con le cose e la complessità turbata delle idee.
I suoi personaggi – bambini, uomini nudi o vestiti, cavalli ma soprattutto, come s’è visto, donne in sembianza di Regine, adorne dei mantelli preziosi e delle sete ricamate di un Rinascimento reinventato – mantengono caparbiamente in tutti questi anni un atteggiamento disincantato, per il quale i loro sguardi enigmatici e insieme affettuosi proiettano sull’anima un senso di spaesamento e insieme una loro segreta letizia, il mistero laico di una bellezza che, tra le sue mani, acquista un sapido profumo di araldicità e di antiche memorie. Le sue creazioni evocano, per questo, una sorta di ambigua erotica del bello, per poi concretizzarla in un’immobilità che consegna la figura a una contemplazione fuori del tempo, quasi che la consapevolezza dell’universo intero guidasse quelle forme e il peso solenne della loro leggerezza.
Scultore, dunque, risolutamente figurativo, Brizzolesi non si è però mai contentato della mimesi del reale. Il modello, il tema, per lui sono anzi solo un punto di partenza dal quale tuffarsi nel fascino ambiguo e maliardo, ogni volta simile eppure diverso, delle abitanti del suo mondo interiore, a volte sensuali e gentili, a volte più solenni e ieratiche, classicamente monumentali.
Donne arcane, donne magiche, donne sognate e temute, che hanno sempre, in prima battuta, tutto il sapore turgido e la tenerezza appassionata di un eros fortemente liricizzato, metaforizzato, intimamente allusivo a una simultaneità di aspetti, di spessori, di ambiguità, di grazie intriganti, di tenerezze, di languori e di asprezze che illuminano di un riverbero sempre sfuggente e interrogante il corpo femminile, il suo mistero tanto eterno e idealizzato quanto familiare e concreto. Ma possiedono anche, appunto, tutta la fisicità e la corposità di donne vere pur se trasfigurate, figure sospese come per un incantamento che ne tramuta le sembianze, le vesti e i gesti verso una dimensione altra, verso una realtà diversa da quella della semplice naturalità. Fuori dalle cronache di un racconto esplicito, così come fuori da un luogo o da un’epoca precisi, queste figure maestose e insieme affabili rappresentano in ogni loro stagione una stilizzazione di intensa sensibilità espressiva, giocata su una sorta di classicismo ricavato dalle più segrete pieghe della memoria e della sensibilità. Riferimenti non certo vissuti sulle sole ragioni del gusto o di un citazionismo fine a se stesso, quanto invece nutriti di autentica passione per gli antichi maestri e per la grande scultura d’ogni tempo, per i valori che restano oltre lo stile.
Concentrazione e, soprattutto, classicità “rinascimentali” sono dunque il territorio formale dal quale il linguaggio plastico di Brizzolesi procede per questo suo viaggio straordinario tra donne fiorite e gentilissime amazzoni, tra forme arabescate e struggenti armonie di gesti e di posture.
Certo è che, a modo suo, questa amabile ossessione per l’eterno femminino deve pur avere anche qualche intreccio con i miti che abitano la sua psiche profonda d’individuo, nello specchio dell’atto creativo capace di trarre dalla mescola dei molteplici ingredienti dell’immaginario l’incanto di una seducente ricetta di poesia, la sintesi di un emblema muto eppure metaforicamente eloquente.
Ma non sarò sicuramente io ad avventurarmi sul terreno sdrucciolevole delle motivazioni psicanalitiche. A me basta rilevare quanto e come, oltre al detto fin qui, sempre circola per tutte le sue immagini come una innocenza definitiva, come il piacere di una semplice “verità” sorgiva, aurorale; un candore solido, fondante, che basta a se stesso.
“Un fare semplice e grandioso per un procedimento idealistico e classico” aveva scritto una volta Carrà per l’amico scultore Francesco Messina, “in grado di dar vita a forme che restano come immagini ideali”.  Ecco, anche per Brizzolesi il fascino della scultura è dato qui, in gran parte, dalla misura classica delle sue forme “ideali” e idealizzate, miracolosamente immobili, sempre in equilibrio nell’attimo fuggente di un volto o di una postura che si carica di vitalità, di felpato mistero.
”Che cos’è l’arte?” Ecco una delle domande ricorrenti che Sergio, tra il serio e lo scherzoso e in maniera un po’ provocatoria, rivolge talvolta alle persone, come se dalla loro risposta dipendesse in qualche modo anche il giudizio che egli darà di loro.
La verità è che il nostro artista sa bene, invece, che a quel quesito capitale non è mai stato possibile rispondere in modo definitivo, esauriente, univoco. La vera risposta è solo possibile nel fare, cioè nell’inverare completamente in un’opera che dura una vita, senza trucchi o infingimenti, le proprie idee, emozioni e sentimenti, il proprio immaginario. Come appunto ha saputo e sa fare Brizzolesi con le sue sculture.

 

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